Una tiepida domenica di primavera, quando ancora il giorno si confondeva con la notte, sul fondo della strada s’inerpicava ai paesi sulle montagne, tra la nebbia che ammantava il paesaggio, apparve un uomo, alto e magro. Indossava un elegante abito da sera; sul capo il cappello a cilindro; la valigia ciondoloni nella mano. Il passo ubbidiente ai rintocchi del campanile della chiesa, raggiunse la fontana zampillante nel centro della piazza. Si fermò a ridosso della vasca; adagiò la valigia al suolo; guardandosi intorno, si sfilò il cappello poggiandolo sul bordo della vasca. Con gesti misurati, aprì la valigia: vi trasse il leggio sistemandolo sul lastricato. Tornò a cercare nel bagaglio: dopo qualche istante si alzò trionfante: gli occhi lucidi fissavano il libro, il fascio d’asticelle e il panno ripiegato con cura che le mani stringevano. Sistemò il volume sul leggio e cominciò a sfogliarlo con assoluto rispetto. Poini montò la croce d’asticelle dispiegandovi il tessuto su cui era ricamata la sfinge, infilando nelle asole che rifinivano gli orli del drappo le estremità della struttura. L’aquilone era ultimato.
Man mano che le ombre diradavano sul paese, dalle viuzze che circondavano lo slargo convergevano verso il cuore del paese uomini, donne, vecchi e bambini per recarsi a messa. Attratti dall’uomo che sorrideva loro da dietro il leggio gli si raccolsero intorno incuriositi. “Chi è costui?”, “Che vuole?” si chiedevano l’uno con l’altro sottovoce, fissandolo attentamente.
La piazza straripava di gente. L’uomo si chinò a raccogliere l’aquilone e lo srotolò affinché svettasse nel cielo terso. A quel punto si avvicinò ad una bambina dalle trecce bionde e le cedette il filo, accarezzandole il capo. Sorridendo si sistemò dietro al leggio e disse “Signore e signori, per una volta, lasciate che il pastore s’inebri da solo del riecheggiare della propria voce; volgete attenzione alle parole di un semplice come voi. Schiudete i cuori e le menti ora che il sole è asceso all’empireo e la sua luce rischiara il mondo perché si animi di senso. Date agio al senso affinché si avvinghi sulle mura delle vostre anime e ascenda alle menti per alimentare il pensiero.”
Detto ciò lesse una poesia, poi un’altra e un’altra ancora, circondato da un silenzio irreale. Perfino gli uccelli, solitamente allegri e cinguettanti a quell’ora, tacquero per non profanare la solennità del momento.
Il cigolante aprirsi del portale della chiesa ruppe la quiete. Il volto stupito del prete apparve dietro l’enorme uscio di legno. Notando il trasporto con cui il pubblico ascoltava l’uomo decantare versi che esaltavano l’amore tra il cielo e la terra, offeso, richiuse rumorosamente la soglia.
L’indomani il sacerdote si recò dal sindaco per esternare il proprio disappunto sull’increscioso episodio, paragonandolo ad una vera e propria eresia. Comprendendo il rammarico del prete, il politico promise che si sarebbe impegnato affinché quell’episodio non si ripetesse mai più. A tal fine emise un’ordinanza che impediva qualunque tipo di manifestazione nella piazza previa concessione comunale. I cittadini, leggendo il divieto affisso ai muri, si riunirono in assemblea decretando quell’impedimento una vera usurpazione. Mai in vita loro avevano udito parole così belle e dolci come quelle di colui che avevano battezzato “IL POETA”.
Temendo che il malcontento potesse influire negativamente alle prossime elezioni, il sindaco revocò il veto. Ripromettendosi che, se il poeta fosse ritornato, avrebbe presenziato personalmente allo spettacolo per comprendere il motivo di tanto entusiasmo.
La domenica seguente, il poeta ritornò. Ad attenderlo c’era tanta gente. Prima di declamare, come al solito l’uomo affidò l’aquilone alla bambina dalle trecce bionde. Defilato tra la folla vi era anche il prete. Ascoltando il poeta recitare strofe così armoniose e intense tanto da indurre alla riflessione finanche un animo villano, si chiedeva chi le avesse composte. Degli autori che conosceva nessuno aveva mai scritto versi tanto sublimi. Il sindaco e l’intero consiglio comunale, schierati in prima fila, applaudivano con fervore ogniqualvolta terminava la recitazione, chiedendo il bis.
A tanto entusiasmo, il poeta rispondeva con un cortese inchino e, sfogliata la pagina, declamava nuovi versi.
Ogni domenica mattina il paese intero si radunava intorno alla fontana per ascoltarlo, chiedendosi a chi appartenessero quelle poesie e cher senso avesse l’aquilone affidato alla bambina. Ma nessuno osava chiedere.
Una domenica, mentre inneggiava alla purezza dell’amore tra uomo e donna, il poeta si accasciò al suolo vittima di un infarto. Prontamente la gente gli recò soccorso.
Per un attimo l’uomo aprì gli occhi, le pupille brillanti stelle.
“Come vi chiamate?” chiese il prete tenendogli il capo tra le mani.
“Che importa il nome quando un’anima è in procinto di ricongiungersi a Dio?” rispose a fatica.
“A chi appartengono i versi che recitate?” implorò l’uomo di chiesa.
“Agli uomini” rispose il poeta, ed esalò l’ultimo respiro.
La folla, attonita, si segnò con la croce stringendosi alla salma.
Approfittando dello stordimento generale, il sacerdote si avvicinò al leggio e prese a scorrere, una dopo l’altra, le pagine bianche del libro.
Con mano tremante le richiuse e, stringendo il volume sotto braccio, pregò per l’anima del poeta. Raccolse dal bordo della fontana il cappello dell’artista e se l’adagiò sul capo. Quindi si avvicinò alla bambina perché gli cedesse l’aquilone.
L’improvvisa raffica di vento librò il giocattolo nel cielo!
Fine