L’ultima volta che feci un’escursione in montagna fu ad agosto del 2019. Con gli amici della Brigata di Raggiolo salimmo fino alla Pozza Nera per poi ridiscendere il fiume Teggina camminando nell’alveo. In quell’occasione, a causa di una brutta caduta dovuta all’imprudenza, mi procurai una contusione alla gamba che ancora oggi mi dà qualche fastidio.
Lo scorso anno, per via del covid, le escursioni furono cancellate dal programma dell’estate raggiolatta. Tuttavia con gli amici della Brigata riuscimmo a organizzare delle passeggiate nei boschi che però non avevano il fascino delle vere escursioni.
Quest’estate, malgrado il covid continui a condizionare le nostre esistenze, con gli amici della Brigata siamo riusciti a fare un’escursione fin su l’Acqua di Corbo,
un punto del bosco che sorge sulle pendici del Pratomagno caratterizzato da distese di faggi e filari di castagni secolari.
Il gruppo era formato da Paolo Schiatti e da sua moglie Francesca, dai fratelli Gambini – Adelio e Arturo – e da me. L’escursione è durata all’incirca un paio di ore durante le quali Paolo, il Presidente della Brigata, mi ha raccontato delle qualità degli alberi casentinesi il cui legno – in questo caso l’abete bianco – fu utilizzato dal Brunelleschi per la sua famosa cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze e dal Gran Ducato di Toscana per la costruzione delle navi della sua flotta.
Paolo mi ha narrato alcuni episodi relativi a Michelangelo che a sua volta si serviva del legno del Casentino.
Il primo episodio riguarda il suo rapporto con il Vasari: durante un loro incontro, il Vasari mostrò al Buonarroti un proprio dipinto, vantandosi di averlo fatto in soli tre mesi. “Si vede”, rispose caustico l’artista.
Il secondo episodio è legato a quando Michelangelo stava dipingendo la Cappella Sistina: un gruppo di alti prelati gli fecero visita mentre era intento alla realizzazione dell’opera. Lo trovarono disteso di schiena sull’impalcatura, tutto sporco di pittura e polvere. Quando il genio scese per salutarli, gli chiesero cosa stesse facendo: “Sto ritoccando dei particolari” rispose. “Ma da qui non si vedono, chi vuoi che li noti?” gli chiese uno di loro. “Io!” affermò il pittore.
Al rientro con Paolo affrontammo una lunga discussione sul significato simbolico della natura e delle figure antropomorfe con cui si è soliti rappresentarla, tra le quali Maria Maddalena. Paolo mi disse che durante un suo viaggio in Camargue aveva assistito alla festa degli zingari a Saintes Marie de le Mer: la festa celebra Santa Sara la Nera, anche se molti vi identificano Maria Maddalena che, secondo la leggenda, sbarcò sulle coste della Francia provenzale e predicò il Vangelo, vivendo in una grotta ricoperta soltanto dei suoi lunghi capelli e nutrendosi di foglie e pregheiera.
Ci salutammo con l’auspicio di fare un’altra escursione prima che andassimo via.
L’arrivo di Lorenzo Venturini, il mio amico di Pistoia esperto escursionista, anticipò i tempi.
Un pomeriggio Lorenzo mi palesò l’intenzione di voler salire l’indomani a Casa di Buite, un rifugio montano poco distante dal Pratomagno, chiedendomi se volessi accompagnarlo. Accettai, pur sapendo che non sarebbe stata affatto una passeggiata come quella di alcuni giorni prima con gli amici della Brigata.
Partimmo intorno alle sette del mattino. Mentre ci inerpicavamo sul sentiero, Lorenzo mi fece una sorta di lezione di botanica: mi mostrò fin dove crescevano i castagni e da dove iniziavano i faggi, lamentandosi che “quest’anno non ci sono more.”
Sul cammino ci imbattemmo in diverse pozze d’acqua, ognuna con un proprio nome. Giunti davanti a una polla d’acqua Lorenzo si chinò per mostrami quelle che sembravano lucertole muoversi sul fondale: “Sono salamandre” mi spiegò fotografandole.
Nel prosieguo della salita ci imbattemmo in una lapide a forma di croce, con dei fiori legati a un bastone, segnata da una data – 1944 – e da una scritta – P. RUSSO: “È la tomba di un partigiano russo morto durante la guerra!” mi disse. Come scoprimmo in seguito grazie a Renato Giovannuzzi, non si tratta di una tomba bensì di una lapide commemorativa: le spoglie del partigiano sono sepolte in un punto del bosco poco lontano da lì.
Durante l’ascesa ci imbattiamo in due gruppi di escursionisti diretti a valle. Lorenzo si domanda se stessero scendendo direttamente dal Pratomagno e se si fossero fermati a dormire in un rifugio. La sua domanda trova risposta quando arriviamo a Casa di Buite: all’interno le tante vettovaglie sparse sul tavolo, inclusa una bottiglia di chianti e una di Coca Cola, unitamente a i resti sul pavimento di lenzuola e coperte, confermano che almeno uno dei due gruppi ha trascorso la notte lì.
Dal soffitto pende una busta con dentro una gran varietà di cibi in scatola a disposizioni di quanti decidono di pernottare al rifugio o di riposarsi prima di riprendere il cammino. Tutto questo la dice lunga sullo spirito di solidarietà che unisce quanti vivono la montagna per professione o per diletto.
Avendo fatto una parca colazione prima di partire, poiché i morsi della fame mi attanagliano lo stomaco, ne approfitto: prendo dalla busta una scatoletta di tonno affumicato, la apro e verso i filetti di pesce in uno dei piatti di plastica posti sul tavolo e inizio a mangiare. Man mano che la carne va giù, sento ritornarmi le energie.
Con Lorenzo discutiamo se proseguire fin su il Pratomagno o se rientrare. In entrambi è forte la tentazione di raggiungere la vetta, ma siamo consapevoli che per farlo dobbiamo camminare almeno un altro paio di ore. Se lo facessimo, rientreremmo in paese abbondantemente dopo pranzo.
Alla fine scegliamo quella che ci sembra la soluzione più logica: al Pratomagno saliremo la prossima settimana, partendo un’ora prima e portando con noi dei panini per un picnic, oppure ci fermeremo a mangiare un boccone da Giocondo, il ristorante all’ingresso dei prati.
Per il rientro Lorenzo sceglie di percorrere dei sentieri alquanto perigliosi che intersecano perpendicolarmente la foresta. Solo allora mi rendo conto cosa vuol dire affidarsi a un esperto escursionista.
Lorenzo ha con sé il walkie talkie per comunicare con eventuali escursionisti in cammino su altri versanti dell’appennino e una sofisticata applicazione installata sul telefonino che gli consente di tracciare nuovi sentieri e segnalare i rifugi e i ruderi sparsi sul percorso.
Gli domando che lunghezza d’onda possiede la radio trasmittente: “Centinaia di chilometri. Durante un’escursione sui monti di Pistoia riuscii a mettermi in contato con un escursionista sulle Alpi.”
Durante il rientro Lorenzo si ferma più volte, indicandomi le piante che crescono nel bosco. Il suo sguardo si illumina quando dal terreno vede spuntare dei fiori gialli. Si avvicina e strofina le mani sui petali quindi le odora: “Annusa, è il profumo del sole!”
Gli chiedo di spiegarsi meglio. Dice: “Questo fiore si chiama helicriso, il suo profumo mi dà l’idea che racchiuda quello del sole!”
Questo suo senso poetico conferma che la poesia è frutto di una spiccata sensibilità di animo. Visto quanto ami la natura, deduco che Lorenzo di sensibilità ne ha da vendere.
A un certo punto mi avverte che stiamo per inoltrarci su una strada sterrata, scoscesa e disseminata di sassi, lunga circa cinquecento metri:
“Fai attenzione a quando scendi: cerca di corricchiare sollevando le ginocchia in modo che, se una pietra ti rotola sotto la scarpa, anziché scivolarci sopra rischiando di cadere, saltellando riesci a evitare la caduta.”
Il sentiero è molto più ripido di quanto immaginassi. In quell’istante rammento quanto mi raccontò pochi giorni prima Arturo Gambini parlando di un’escursione che fece con Lorenzo lo scorso anno: “Ero stanco, avevo voglia di fermarmi e mangiare qualcosa. Lui disse <<perché dobbiamo fermarci? Mangiamo camminando.>>. Non vedevo l’ora di rientrare a casa. Mai più!”
Anche di inverno Lorenzo effettua escursioni. Molte delle foto che posta sui social lo ritraggono immerso nella neve con le ciaspole ai piedi mentre cammina sui monti innevati, così come ora cammina con apparente sicurezza nella natura ricca di colori e profumi.
Io invece mi arrabatto appoggiandomi sui bastoni per non perdere l’equilibrio su questa specie di mulattiera.
So che avremmo potuto percorrere una via meno tortuosa, ma Lorenzo ha bisogno di sperimentare sempre nuovi cammini, le cose semplici non fanno per lui.
Finalmente arriviamo al Ponte della Prata, poco più di una passerella di legno sospesa sul Teggina. Mi affaccio a guardare l’acqua scorrere allegramente tra i massi sotto di me. Lorenzo fissa con attenzione le travi del pavimento: “Questo ponte ha bisogno di una revisione, alcune travi non mi sembrano solide. Lo segnalerò alla comunità montana. Anche se credo che già lo sappiano!”
Istintivamente abbasso lo sguardo per guardare a mia volta il pavimento. Quindi mi affretto a passare sull’altra sponda, non si sa mai…
Prima di arrivare a Raggiolo ci fermiamo a una fonte per sciacquarci e bere, l’acqua è ghiacciata. Lorenzo ne approfitta per portarmi a vedere le statue in legno opera dei fratelli Beppe e Renato Giovannuzzi. Sono davvero belle, dei veri e propri capolavori d’arte. In particolare il drago e il riccio.
Quando finalmente arriviamo in paese, in piazza incontriamo i fratelli Gambini e Paolo Schiatti. Ci chiedono dove siamo stati. Alla mia risposta, Adelio mi guarda e fa: “È stata dura, eh?” Rispondo: “Con voi è stata una passeggiata in pianura!” Ridono. “Ti capisco!” dice Arturo.
Tornati a casa, Lorenzo mi condivide sul telefonino il tracciato, inclusa l’altimetria e il chilometraggio: siamo saliti per quasi novecento metri, percorrendo complessivamente più di diciotto chilometri in poco più di cinque ore e mezzo.
Una bella passeggiata, non c’è che dire!
Ora ci aspetta il Pratomagno. Già so che non sarà una semplice escursione tra i boschi ma un’avventura; di quelle che, mentre le vivi, imprechi contro te stesso per aver deciso di parteciparvi. Ma poi, quando rientri a casa, la ricorderai per sempre con piacere grazie all’intraprendenza di un amico all’eterna ricerca di nuovi sentieri.
“Quelle già battuti non fanno per me” disse una volta Lorenzo.