Seppure corro da che ero ragazzo, ho iniziato a gareggiare, si fa per dire, da quando ho superato la soglia dei quarant’anni. La prima gara cui presi parte fu la mezza maratona di Napoli del 2007. Per la successiva passarono circa quattro anni, a seguito dell’Alzheimer che alla fine degli anni novanta colpì papà e da dicembre 2006 lo allettò costringendo mia sorella e me ad alternarci al suo capezzale, (tutto ciò l’ho raccontato nel romanzo UN UOMO BUONO – MIO PADRE MALATO DI ALZHEIMER, Edizioni Helicon).
Fino a che papà non ci lasciò a maggio del 2011, mi limitai a correre per un’ora tre volte a settimana la sera al rientro da lavoro. Dopo la sua scomparsa ripresi a farlo con continuità, dedicando la domenica ai medi di una ventina di chilometri.
Nel momento in cui ripresi ad allenarmi senza particolari pensieri, spinto da un gruppo di runner di Pozzuoli, mi iscrissi alla gloriosa Pozzuoli Marathon e iniziai a gareggiare un paio di volte al mese.
Cominciai con le dieci chilometri per poi passare alle ventuno, non escludendo di poter realizzare un giorno quello che è il sogno di ogni runner, prendere parte a una maratona e chiuderla.
La mia prima gara di oltre ventuno chilometri fu la Napoli-Pompei del 2012.
Per prepararla con l’auspicio di arrivare al traguardo senza particolari sofferenze, l’intero mese che precedette la partenza condussi, cosa insolita per me, un regime alimentare alquanto rigido ed equilibrato, riducendo al minimo i grassi, non eccedendo con i carboidrati e le proteine, abolendo dolci, bibite gassate e alcolici. Ciò costrinse mia moglie a cucinare solo per me in un certo modo anche le domeniche, mandandola praticamente in tilt.
Essendo una buona forchetta, sottostare a quel regime alimentare mi pesò non poco. Personalmente considero la corsa un antistress. Nel momento in cui mi resi conto che a sua volta si stava pericolosamente trasformando in oggetto di stress, mi imposi di non fare mai più certi sacrifici.
Negli anni a nulla sono valse le esortazioni di tanti runner affinché facessi determinati sacrifici per andare oltre i miei limiti e migliorare le mie prestazioni in gara. Per quanto mi riguarda la corsa deve rappresentare un piacere, un divertimento, un momento di relax attraverso cui scaricare le tensioni della quotidianità.
Il risultato cronometrico non mi ha mai assillato più di tanto. Certo, sarei un ipocrita se dicessi che non mi dispiace chiudere una 10 km sotto i cinquanta minuti o una 21 km sotto l’ora e cinquanta. Ma tutto ciò è relativo. Corro per rilassarmi e divertirmi.
Quella Napoli-Pompei fu una gara che non dimenticherò mai, né perché per la prima volta corsi quasi trenta chilometri né per le tante sbavature organizzative che la caratterizzarono di cui ero stato messo al corrente da chi aveva preso parte alle precedenti edizioni.
La decisione di correrla fu di natura affettiva: papà era devoto alla Madonna di Pompei e per anni, durante il periodo mariano, una volta smesso di lavorare, la sera anziché tornare a casa, insieme ad altri, partiva a piedi da Piazza Mercato fino al santuario di Pompei per ascoltare la prima messa alle sei del mattino e poi rientrare a casa.
Dopo tutte le sofferenze che aveva patito durante la malattia, per onorarne la memoria ritenni fosse doveroso da parte mia ripercorrere, seppure in forma diversa, quel cammino a lui tanto caro.
Quei vent’otto chilometri furono una continua alternanza di emozioni e, soprattutto, di arrabbiature: la mancanza di bagni chimici alla partenza in Piazza del Plebiscito obbligò molti a rintanarsi dietro al colonnato per urinare prima del via; la mancanza d’acqua lungo il percorso in più di un’occasione ci obbligò a passarci di mano in sei una bottiglietta da mezzo litro; più volte qualcuno rischiò d’essere investito dalle auto che, incuranti delle segnalazioni degli assistenti di gara, anziché fermarsi, sfrecciavano senza darci la precedenza. Quando feci presente a una vigilessa che dovevano fermare le vetture per farci passare, rispose “che cazzo la fanno a fare questa gara di merda!”.
Anni dopo, durante una gara a Napoli, mi confrontai nuovamente con un vigile rischiando una denuncia per offesa a pubblico ufficiale. Ma questa è un’altra storia…
Un episodio simpatico si verificò mentre attraversavamo Torre Annunziata. Sui marciapiedi erano radunati gruppi di persone che ci incitavano dicendo che mancava poco, che eravamo ormai arrivati; o, sarcasticamente, ci chiedevano “chi vo fa fa’?”. Una di loro teneva tra le mani una bottiglia d’acqua da un litro e mezzo e ce la porgeva in maniera caritatevole. Ovviamente afferrarla al volo, come avveniva con quelle da mezzo litro, era impossibile. Qualcuno cercò di farlo, rinunciandovi.
Nessuno di noi aveva il coraggio di fermarsi per prenderla e bere in quanto tutti eravamo consapevoli che, dopo quasi venticinque chilometri, farlo significava non ripartire più. Accanto a quello con la bottiglia d’acqua c’era un tale che, vedendo le nostre difficoltà nel prenderla, a voce alta gli disse, “Ma non potevi prenderne una più piccola?”. Lui rispose, “Sulo chesta aggio truvato, se vonn bere, s’hanno attaccà ‘a butteglia!”.
Quando in lontananza finalmente si iniziò a vedere svettare al cielo il campanile del santuario, mi sentii rincuorato. L’ultimo tratto del vialone che, correndo parallelo agli scavi, conduce nel centro abitato lo percorsi col sorriso sulle labbra.
Nel momento in cui giunsi sul traguardo in Piazzale Bartolo Longo, non potetti fare a meno di girarmi verso il santuario e rivolgere una preghiera di ringraziamento a nome di papà. Per tutto il tempo lui aveva corso idealmente con me incitandomi a non mollare ogni volta che fui colto dalla tentazione di ritirarmi, a dare il massimo quando l’adrenalina era a mille.
La corsa non è solo fatica e gioia ma anche magia!