Si dice che “un uomo senza lavoro è un uomo senza dignità”. Non sono d’accordo. Avendo perso il lavoro poco più di tre anni fa, mi sento in diritto di affermare che la dignità la si può perdere anche lavorando, tenendo un comportamento privo delle elementari regole umane e sociali.
Un uomo senza lavoro, invece, per la società è come se non esistesse, è come se fosse morto, in quanto non è nella condizione di potersi permettere nemmeno un caffè o una pizza, certamente non da Briatore, da solo o con gli amici – sempreché questi ultimi non si allontanino da lui nel momento in cui perde il lavoro -, di acquistare il giornale o semplicemente di concedersi una passeggiata senza l’assillante pensiero di non avere in tasca nemmeno i soldi per pagarsi il tram.
In questa società in cui ciò che realmente conta sono i numeri, in primis quelli del conto corrente, un uomo senza lavoro, e dunque privo di reddito, è una sorta di fantasma: tanti sanno che esiste ma in pochi riescono a vederlo. Quei pochi quasi sempre sono i familiari e qualche amico vero. Perché è in situazioni simili che scopri chi ti è veramente amico e chi lo era invece solo a parole.
Sono anni, probabilmente dalla nascita della Repubblica, che i partiti italiani si riempiono la bocca della parola lavoro facendone un caposaldo dei propri programmi elettori. Non a caso il primo articolo della Costituzione recita “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
Chissà perché in settantasei anni, malgrado le tante lotte sindacali che si sono succedute nel tempo, che sicuramente tanti vantaggi ai lavoratori hanno portato, tuttora la parola lavoro continua a primeggiare sulle labbra dei politici nostrani, i quali nei comizi elettorali e nei salotti televisivi, con atteggiamento compassionevole, si struggono per i giovani che non riescono a trovare un lavoro dignitoso, o per chi il lavoro lo ha perso ed è alla disperata ricerca di un altro; promettendo di farsi carico delle loro istanze se dovessero andare al governo. Ma poi, una volta entrati nella stanza dei bottoni, dei giovani e dei lavoratori se ne sbattono tagliando diritti acquisiti e tutele – vedi Legge Fornero e abolizione dell’articolo 18; giustificando quel loro agire contraddittorio quale conseguenza della crisi economica “che sta attraversando il paese, rischiando di farlo ristagnare se non si interviene in tempo adottando misure dolorose ma necessarie” che, chissà perché penalizzano sempre la gente comune, quella che a stento riesce ad arrivare alla fine del mese. Non facendosi scrupoli di irridere e offendere pubblicamente un lavoratore, com’è il caso recente del Ministro Brunetta, il quale già in passato non si era fatto alcun timore di attaccare verbalmente un gruppo di precari definendoli “siete l’Italia peggiore”, testimoniando quanto gli stia veramente a cuore gli interessi del popolo.
In uno scenario del genere, dove chi dovrebbe tutelare gli interessi dei cittadini sembra invece nutrire astio verso di loro, l’attacco trasversale nei confronti del reddito di cittadinanza, che molti politici vorrebbero abolire perché, a loro dire, la gente preferisce percepire il reddito anziché lavorare, non stupisce: il reddito va sicuramente riveduto e migliorato. Ma abolirlo sarebbe un’offesa a quelle tante persone oneste che, percependolo, tirano per un attimo un sospiro di sollievo, ritrovando un barlume di dignità.
L’affermazione secondo cui la gente preferisce percepire il reddito anziché lavorare sta diventando un mantra ripetuto fino alla noia da tanti imprenditori, piccoli e grandi, del settore alberghiero e della ristorazione, ma non solo, i quali, attribuiscono al reddito la loro impossibilità di trovare manodopera. Nemmeno per un momento molti di loro sono sfiorati dal dubbio che la gente, soprattutto i giovani, è stanca di essere sfruttata vedendosi proporre contratti di lavoro privi di tutele, che contemplano oltre dieci ore di lavoro al giorno in cambio di paghe da fame.
In uno scenario del genere, dove è sempre più evidente che in questo paese della povera gente importa sempre meno a chi guida il carro, mentre quei pochi a cui importerebbe, chissà perché, non sono politicamente nelle condizioni di poterla realmente aiutare a risolvere i problemi, l’uscita di Flavio Briatore che, per giustificare l’alto costo di alcune delle pizze vendute nella sua catena di pizzerie, ha messo in discussione la qualità degli ingredienti utilizzati in quelle che si vendono a Napoli e altrove a 5/6€, trovando il sostegno dello chef Iginio Massari, è l’ultimo tassello di un puzzle che evidenzia quanto nel nostro paese esista un abisso tra ricchi e poveri.
Di questa realtà la politica sembra non avvedersene, scollata com’è sempre più dai bisogni reali del paese e sempre più incollata alla poltrona.
Tutto il resto sono baruffe e farse elettorali, sceneggiate per fare marketing di cui, francamente, tanta gente è stanca.
Bravo