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Al di là dei distinti aspetti dogmatici e ritualistici che le caratterizzano, che io sappia, non esiste al mondo nessuna religione che non contempli la credenza dell’immortalità dell’anima. Quella particella individualizzata di Dio che, per un’ignota ragione, avrebbe necessità di incarnarsi in un corpo umano o animale per vivere l’esistenza materiale allo scopo di acquisire consapevolezza della propria divinità e adoperarsi, attraverso un processo catartico indicato nei vari testi sacri sotto forma di rituali e azioni da compiersi in vita, di ritornare alla Fonte da cui deriva per condividerne in coscienza la beatitudine e la grandezza che da essa sprigionano.
Questa visione universale distingue tra un principio immortale (l’anima) e uno mortale, strumento dell’anima, (corpo), di cui l’anima si disfarebbe con il sopraggiungere della morte, per ritornare da dove deriva.
Dandone per scontata l’esistenza, non stiamo qui a discutere cosa effettivamente accadrebbe all’anima se, all’atto della morte del corpo fisico, essa non raggiungesse la consapevolezza della propria divinità e immortalità – pur differenziandosi sostanzialmente dalle rispettive credenze, le singole religioni ammettono che l’anima non muore e che, prima o poi, tutte le anime ritorneranno a contemplare la grandezza della fonte che le ha generate.
Si creda o no in Dio, penso che tutti concordiamo su un punto: la morte è un grande mistero. “Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo” sono le tre domande esistenziali che da sempre l’uomo si pone a cui nessuno finora, e forse mai, ha dato e riuscirà a dare una risposta convincente e definitiva!
In questi casi chi è alla ricerca di un sostegno interiore per affrontare serenamente le avversità della vita, o si affida alla fede – ammettendo dunque l’esistenza di aspetti esistenziali che vanno semplicemente vissuti e accettati “senza se e senza ma” perché comprenderli supera le capacità umane -; oppure alla filosofia che, mediante un coacervo di ipotesi e teorie spesso astruse, a volte in contraddizione tra loro mettendo ulteriormente in crisi l’individuo alla ricerca di risposte, vorrebbero dimostrare attraverso il puro e freddo ragionamento l’immortalità dell’anima o la sua assoluta inesistenza, convincendoci che siamo un intricato coacervo di ossa, carne e cellule che, al sopraggiungere della morte, si allontanano l’una dall’altra per ritornare ai reciproci serbatoi universali da cui provengono al fine di costituire nuovi corpi, causando la decomposizione del corpo che costituivano.
Tuttavia questo disfacimento corporale che avviene con la morte testimonia che, quando essa sopraggiunge, accade qualcosa di incomprensibile per cui ciò che obbligava le cellule a operare in maniera concorde affinché il corpo sopravvivesse e si rinnovasse non esiste più. Pertanto esse si sentono libere di andare ognuna per proprio conto.
In conseguenza di ciò è impossibile non affermare che, se esistesse davvero, l’anima sarebbe intimamente legata alla sanità del corpo e viceversa come affermano sia la medicina allopatica, pur facendo mille distinguo, sia quella olistica per la quale la sanità del corpo si cura curando l’anima.
Tra anima e corpo esisterebbe un legame intrinseco che li renderebbe indipendenti l’una dall’altro. Seppure l’anima come principio universale sarebbe immortale e si reincarnerebbe vita dopo vita in corpi diversi…
Tale processo detto reincarnazione rappresenta un dogma per le religioni orientali quali induismo e buddismo, per citare le più note. Viceversa il cristianesimo crede nella resurrezione del corpo, come testimonia la morte e resurrezione di Cristo, quando sarà il tempo del giudizio universale.
Per quanto concerne la riconquistata libertà delle cellule nel momento della morte, si potrebbe obiettare che già l’invecchiamento del corpo potrebbe considerarsi una sorta di decomposizione da cui potremmo trarre la paradossale conclusione che nasciamo morendo; che la morte non sarebbe altro che l’atto conclusivo di un processo di invecchiamento che incomincia con il concepimento della vita nel ventre materno per concludersi quando esaliamo l’ultimo respiro.
È scientificamente dimostrato che ogni sette anni le cellule che compongono l’organismo umano si rinnovano completamente. Già questo dovrebbe farci riflettere…
Uno dei momenti in cui setacciamo a fondo nei meandri della nostra “struttura” culturale/religiosa alla ricerca di “materiale” che ci aiuti ad affrontare serenamente, o quanto meno con forza questo immane mistero della vita, è sicuramente la scomparsa di una persona cara. Se poi la sua sparizione avvenisse dopo un lungo calvario di sofferenze derivanti da una grave malattia che ne ha distrutto la dignità di individuo, paradossalmente la morte si tramuterebbe in un sorta di liberazione, sua e nostra: sua perché, per quanto incosciente possa essere l’ammalato mentre giace nel letto, il lungo periodo di sofferenza fisiche che patirà sono micidiali, anche se non ci sta più con la testa, e dunque sarà dilaniato dal dolore; nostra perché finiamo di tormentarci nel prenderci cura di lui, pur consapevoli che non c’è nulla da fare, consapevoli che più ci adoperiamo per alleviargli le sofferenze con sofisticati intrugli medici, più gli allunghiamo l’agonia e il dolore.
Tuttavia, pur non essendo credenti ma avendo fede nella Natura e rispetto per l’individuo, sappiamo che la vita va salvaguardata fino all’ultimo istante proprio perché, al pari della morte, è un’immane mistero, quindi rigettiamo l’idea di affidarci all’eutanasia per porre fine a quel tormento. Ma rigettiamo pure l’idea dell’accanimento terapeutico perché ci rendiamo conto che, se l’eutanasia può intendersi come un gesto presuntuoso ed egoistico con cui l’uomo si sostituisce a Dio o alla Natura, anticipando il corso degli eventi per alleviare le sofferenze dell’ammalato e indirettamente le proprie perché è stanco di affannarsi al suo capezzale ottenendo come unico risultato di prolungargli le sofferenze; dall’altro siamo altrettanto consapevoli che l’accanimento terapeutico altera il cammino della natura, obbligando un corpo a vivere oltre le proprie reali potenzialità. Per cui, così come rigettiamo l’idea dell’eutanasia, rifiutiamo anche quella dell’accanimento terapeutico perché, comunque, entrambi, seppure con scopi chiaramente diversi, pretendono di sostituirsi alla Natura o a qualsiasi cosa abbia originato il creato e alimenti la Vita al di là della comprensione umana, mantenendo o levando la vita in maniera artificiale.
Al momento dimostrare scientificamente l’esistenza dell’anima sembrerebbe impossibile. Ma proprio per questo non si può escluderne l’esistenza.
Ciò che non è dimostrabile oggi non è detto che non possa esserlo domani…
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