Di seguito vi propongo la mia intervista alla cantautrice Elda Salemme pubblicata su quicampiflegrei.it
L’appuntamento con la cantautrice/chitarrista Elda Salemme è a Bacoli nell’attico di famiglia da cui si ammira lo splendido panorama del golfo di Pozzuoli. Classe 1987, Elda ha un curriculum di tutto rispetto: è stata fondatrice del trio vocale al femminile The Drops; ha collaborato con Walter Maioli nel progetto di ricerca sonora ancestrale “Oriental Blues” e in “Synaulia”, spettacolo di musica e danze dell’Antica Roma; è presente nell’album italo-portoghese Mar Da Lua di Mimmo Epifani con la sua versione polivocale di Tarantella Del Gargano; ha scritto per Rah.ma il branoUNA STORIA DA RACCONTARE, vincitore di molti premi in Italia, tra cui “Miglior Inedito” e “Primo Classificato” al Festival della Canzone 2017. Dal 2012 insegna Canto Moderno e Chitarra Base con la passione e la curiosità che accompagnano una continua e instancabile ricerca.
Elda, nonostante tu sia nipote dell’attore/regista Vincenzo Salemme, hai orientato la tua vena artistica verso un campo diverso rispetto a quello che ci si poteva attendere, ovvero il teatro e il cinema, perché?
È stata una scelta naturale. Fin da piccola il mio spazio emotivo, in cui coltivavo la vera me stessa, ha trovato nella musica il suo ambiente naturale. Ritengo che l’arte sia la voce dell’anima, l’espressione della propria interiorità. Se questa voce l’avessi falsata per fini opportunistici, avrei di riflesso tradita me stessa e la mia sensibilità. Il teatro e il cinema mi piacciono, ma il mio mondo è la musica e la canzone; è lì che trovo la mia vera dimensione artistica. Inoltre la musica si è rivelata un’ottima medicina per alleviare, metabolizzare e sublimare le sofferenze e il dolore della vita.
Dunque anche tu ritieni che per un artista la sofferenza sia un concime indispensabile per dare vita al proprio estro creativo?
L’artista che non soffre non penso possa creare. E la sofferenza di un artista è rapportata al suo grado di sensibilità. Più sei sensibile, più soffri, più dai corpo al tuo dolore attraverso l’arte. Per quanto mi riguarda sensibilità-sofferenza-arte sono una triade imprescindibile l’una dall’altra.
Elda quando ti esibisci lo fai quasi sempre in inglese, perché?
È una lingua che mi ha sempre dato confort, così come il napoletano. Mentre ti aspettavo ho dato uno sguardo ai tanti dischi che possiedo, sui quali mi sono formata. Nel farlo, mi sono resa conto che sono quasi tutti artisti americani, solo uno è inglese e due sono napoletani. Il napoletano e l’inglese rappresentano la mia zona franca in cui mi muovo comodamente per esprimermi musicalmente. Ritengo che l’inglese e il napoletano siano delle tavolozze ricche di colori, per lo più sgargianti, che mi consentono di spaziare molto di più se invece decidessi di cantare in italiano. Non mi risulta esista un funk italiano, un soul italiano!? Esiste un hip hop napoletano, quello vero, che più ricorda la sonorità del bronx degli americani.
Perché come strumento hai scelto la chitarra?
La chitarra era il mio sogno da bambina. La prima mi fu regalata che avevo dieci anni. Era nelle mie corde, perdonami il gioco di parole e di immagini. La corda la sento mia rispetto ai tasti di un pianoforte o di una tastiera in generale. Probabilmente in maniera inconscia la chitarra mi trasferiva un senso di libertà, visto che puoi suonarla stando alzata, muovendoti sul palco. Mentre il pianoforte mi ha sempre messo angoscia perché mi costringe a stare seduta. Non è il mio mondo. Io ho bisogno di muovermi, anche quando suono.
I palcoscenici su cui ti esibisci sono solo teatri underground o hai avuto modo di esibirti anche su grandi spazi?
Ho avuto modo di solcare anche palcoscenici di tutto rispetto, ma non come solista bensì in band. Ho suonato al Palamaggiò di Caserta, alle terme di Caracalla a Roma, al meeting del mare a Marina di Camerota.
Secondo te per un artista nascere a Napoli è una fortuna o una disgrazia?
È un enorme fortuna nascervi. Il che è diverso dal viverci. Mi spiego: nascere a Napoli significa nascere immerso nella bellezza. Trovarti circondato da tanta bellezza e sentirti infinitamente piccolo. Per cui, per quanto possibile, ricevere anche il dono dell’umiltà perché, per il fatto di trovarti immerso nella magnificenza, non ti senti indispensabile. Secondo me l’arte viene valorizzata in luoghi dove non ci sono particolari bellezze paesaggistiche e culturali come a Napoli. Laddove tutto ciò manca nasce la necessità di compensare il vuoto di bellezza attraverso l’arte. A Napoli basta che ti affacci al balcone e ti trovi ad ammirare un capolavoro della natura!
Torniamo alla musica, ti definiresti una blues woman?
Da un anno a questa parte, assolutamente sì!
Perché ti sei orientata verso il blues?
Francamente, non saprei. Mi ci hanno indirizzata. In particolare fu un amico che mi chiese di cantare blues quando io non avevo assolutamente idea di cosa significasse. Come ascolti ho sempre prediletto il jaaz e invece nel blues ho ritrovato uno straordinario veicolo d’espressione. Se poi consideriamo che il jaaz deriva dal blues, avvicinarmi a quest’ultimo lo considero quasi naturale.
L’emergenza covid ha spezzato le gambe a qualsiasi progetto, artistico e non. A te in cosa ti ha penalizzato?
Stavo lavorando alla realizzazione del mio primo disco. Tutto è rimasto in sospeso e non si sa quando potremmo riprendere.
L’emergenza che da mesi ci obbliga a stare rintanati in casa per un artista potrebbe risolversi in un veicolo per dare sfogo alla propria creatività, tu che ne dici?
Personalmente ho vissuto e sto vivendo questo stop non tanto come un motore propulsore per la mia creatività quanto come un momento in cui finalmente posso concedermi un attimo di tregua. Devo confessarti che mi ero fatta travolgere dai ritmi frenetici che questo lavoro ti impone. Ecco, in tal senso penso che, paradossalmente, questa tragedia ci abbia obbligati a riscoprire una dimensione più umana con tempi più adatti a noi. Almeno per me è così!
Progetti per il futuro?
Ovviamente concludere il mio primo disco da solista. E poi scrivere testi in italiano.
C’è un cantante italiano al quale ti senti più affine?
Francesco De Gregori. Seppure devo dire che la lingua italiana non si avvicina al genere di musica che intendo io. Il mio progetto è trovare la formula senza sacrificare la musicalità. Ti faccio un esempio: Elisa quando canta in inglese è bravissima. Lo è anche quando si esibisce in italiano, ma la sensazione è che, quando lo fa nella lingua madre, sacrifichi qualcosa. È come se le mancassero dei colori. È come se cantare in inglese e in italiano fossero due mondi distinti e separati. Tutto ciò è un mistero! È questo bipolarismo che voglio provare a unire.
Visto che hai parlato di colori, identificati in un colore.
Verde, ma non perché simboleggia la speranza. È un colore che mi riporta alle foglie, quindi alla natura! A quel mondo che, seppure forzatamente, oggi stiamo riscoprendo grazie al virus.
Ciao Vincenzo, ti ringrazio per aver pubblicato questa intervista ad Elda Salemme perché mi hai dato modo di conoscerla, ahimè non la conoscevo prima, ho rimediato subito andandomi ad ascoltare i suoi brani. Tra i tanti ho volutamente cercato l’interpretazione di qualche testo napoletano, ho trovato “Io te vurria vasà” che ha interpretato amabilmente. Complimenti ad Elda per questa sua musicalità capace di suscitare emozioni.
Annunziata Zinardi
Cara Nunzia, grazie a te per l’attenzione.