DI SEGUITO VI PROPONGO LA MIA INTERVISTA AL FOTOGRAFO CORRADA ONORIFICO PUBBLICATA SU QUICAMPIFLEGREI.IT
Sabato 14 marzo all’ArtGarage di Pozzuoli era in calendario il vernisage della mostra fotografica “Viaggio in Mongolia” di Corrada Onorifico, curata da Francesco Cito. A causa degli eventi pandemici, l’evento è stato rinviato a data da destinarsi. Grazie alle tecnologie digitali, lunedì 18 maggio si è tenuto su Skype, moderato da Francesco Soranno, un incontro in video con Corrada che, dopo aver raccontato di sé, ha presentato gli scatti che avrebbe in parte esposti a Pozzuoli. All’evento ha assistito anche Enzo Giarritiello che l’ha poi intervistata.
Corrada perché, dopo tanti anni, hai deciso di abbandonare
l’attività di regista/documentarista per dedicarti alla fotografia?
Quando sei regista in qualunque caso hai bisogno di un tramite – uno, due cameramen, forse anche tre – in base a ciò che devi fare. La loro presenza ti lega al soggetto con cui devi comunicare, dovendoti confrontare prima con loro e poi con esso. Sia chiaro, io non ho mai avuto alcuna difficoltà a interagire con i membri del mio staff: con loro ho avuto sempre un buon feeling; mi capivano e accontentavano perfettamente. Tuttavia quando inquadri c’è un momento in cui hai bisogno di instaurare un rapporto diretto, non solo con il soggetto ma con l’inquadratura stessa: chi fa fotografia sa benessimo che basta cambiare di pochi gradi l’angolo di osservazione per modificare il momento che si vuole raccontare. Io avevo necessità di farlo anche dal mio punto di vista!
Per quanti anni hai lavorato come regista?
Quindici anni!
Poi una mattina ti sei svegliata e hai detto basta!?
No, era un malessere che mi portavo dentro da tempo; un’insoddisfazione che mi coglieva ogni volta che visionavo il girato. Senza nulla togliere a chi collaborava con me, guardando le riprese non trovavo quello che avevo visto e sentito. Tutto ciò mi frustrava perché in quei filmati non riconoscevo l’intimità che si era creata tra me e il soggetto all’atto che giravamo. Fu allora che, piano piano, mi munii di fotocamera e iniziai a scattare. Seppure agli inizi le mie foto non fossero tecnicamente corrette, secondo me, a livello contenutistico, raccontavano molto più dei video. A quel punto decisi di perfezionarmi tecnicamente attraverso lo studio.
Osservando le tue foto ho notato che, malgrado l’apparente
semplicità, hanno degli accorgimenti di inquadratura che fanno sì che, ad esempio, la profondità di campo non infici minimamente la messa a fuoco del soggetto in primo piano. È una tecnica maturata nel tempo o è un retaggio della tua precedente attività da regista?
Tutto ciò che oggi caratterizza la mia fotografia deriva dal mio passato da regista che mi porto addosso come una seconda pelle. Questo è il motivo per cui, tuttora, mi definisco regista/documentarista anziché fotografo. Ti faccio un esempio: quando arrivo in un posto la prima cosa che faccio è quella di fotografare in campi larghi affinché si sappia dove sto. Quindi stringo l’inquadratura in modo che si vedano le ambientazioni, fino a sviscerare arrivando ad inquadrare solo le mani o la parte di un braccio perché sento l’esigenza di entrare nell’universo molecolare del soggetto.
La tua passione per la fotografia quando nasce?
Da ragazzina: il desiderio di evasione, di libertà mi appartiene da sempre. All’età di otto anni rubai la bicicletta a mio fratello e andai a tagliarmi i capelli che mia madre adorava perché erano il segno della mia femminilità. Me li feci radere a zero, dicendo che poi sarebbe passata lei a pagare. Mi cercarono tutto il giorno, praticamente scappai di casa. Questo per farti capire quanto fosse forte in me la voglia di libertà! Quando facevo qualche marachella, per punirmi mamma era solita chiudermi in una stanza, una
specie di bugigattolo. Lì una volta trovai un libro che ci aveva regalato mia
zia: IL GIRO DEL MONDO IN OTTANTA GIORNI. Lo lessi tutto d’un fiato. Per una vita intera ho sognato di poter girare il mondo in mongolfiera identificandomi con Phileas Fogg.
Il tuo primo lavoro documentaristico qual è stato?
In Tunisia. Il successivo in Brasile da dove portai delle immagini non proprio perfette perché non avevamo la giusta attrezzatura, ma erano immagini forti. Quando le presentai in RAI ne riconobbero il valore del contenuto, ma criticarono la qualità tecnica. Al terzo viaggio già lavoravo per LE FALDE DEL KILIMANGIARO. Durante il quarto viaggio ebbi la fortuna di fare un esclusiva: il carnevale degli indios in Amazzonia. Una cosa che Licia Colò aveva provato a fare per tanti anni senza mai riuscirci. Io, non so come, ci riuscii.
Attualmente le tue fotografie dove vengono pubblicate?
Corredano, unitamente ai video che realizzo da me, articoli sui grandi viaggi utilizzati da società che curano la comunicazione di un gruppo di linee aeree raggruppate sotto un unico marchio.
Prima che scoppiasse l’emergenza Covid avresti dovuto presentare
all’ARTGARAGE di Pozzuoli la mostra fotografica sulla Mongolia che abbiamo ammirato su Skype. Quando finalmente le acque si saranno calmate, conti di allestirla?
Sì, mi farebbe molto piacere e lo trovo anche molto giusto. Soprattutto verso l’organizzatore Gianni Biccari che mi ha inserita nella rassegna dandomi la possibilità di conoscere tante persone interessanti che ruotano intorno all’ambiente.
La mostra all’ARTGARAGE sarebbe stata la tua prima personale?
Sarebbe stata la mia prima personale alla quale avrei presenziato visto che in precedenza ne avevo già fatta un’altra ma, essendo in viaggio, non l’avevo potuta seguire.
Questa donna da sola in giro per il mondo come viene accolta quando si presenta in un luogo per fotografare, soprattutto in zone impervie o in paesi non del tutto sviluppati a livello sociale?
Questa è una bella domanda… Un misto tra curiosità e fastidio. Quest’ultimo caso riguarda soprattutto le donne… Sì, vieni vista in maniera un po’ strana, a volte anche con tenerezza. I sentimenti sono molteplici. Dipende da dove ti trovi.
Dove hai trovato accoglienza e dove invece ti sei sentita respinta?
L’accoglienza totale la trovo sempre in Sudamerica, facendo ovviamente attenzione perché anche lì ci sono anfratti pericolosi. Ciò nonostante in quei luoghi mi sento sicura. Dove invece non mi sono sentita ben accetta è stato nell’ultimo viaggio in Marocco. Già c’ero stata in passato ma non avevo riscontrato la diffidenza e il rifiuto che vi trovai allora. Il Marocco islamico è diventato molto più intollerante nei confronti della figura femminile. Mi reputo una persona piuttosto libera e mai mi era capitato di sentire l’esigenza di dovermi coprire come in quel caso. Ciò mi ferì molto.
Ti è mai capitato durante uno dei tuoi viaggi di temere per la tua vita?
Sì, è successo in India! Ero lì per documentare il Maha Kumbh Mela, un rito di purificazione che si ripete ogni dodici anni. A una determinata ora le persone si tuffano nel fiume per purificarsi. Per quell’evento arriva gente da ogni parte del paese. Quel giorno se ne contavano cinquanta milioni, qualcosa di inspiegabile! Io feci l’errore di non preoccuparmi dove confluisse quella enorme massa umana. Cammina cammina, a un certo punto si creò una sorta di imbuto e mi ritrovai stretta tra le persone al punto da sentire le costole scricchiolare, prossime a spezzarsi. Lo stesso accadde a tante altri che erano lì con me. Scoppiai a piangere per il dolore e per la paura: in quel momento ho davvero temuto di non farcela!
Corrada Onirifico cosa vuol fare da grande?
Una cosa molto importante che devo a me stessa e a mio marito che con la sua presenza mi completa come persona: voglio continuare a viaggiare senza tempo e senza meta. Esclusivamente per il piacere di andare perché per me il
viaggio è una condizione dello Spirito.
Progetti per il futuro?
Questo è il mio progetto per il futuro: andare!
Per saperne di più su Corrada Onorifico basta andare sul suo sito www.corradaonorifico.com