CARE STAZIONI, ADDIO

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Fin da bambino mi sono sempre piaciuti i treni e le stazioni. Ricordo che quando con i miei genitori ci spostavamo, anche solo per brevi tratti prendevamo la metro o il treno – papà non ha mai preso la patente per cui ci muovevamo sempre con i mezzi pubblici -, nel momento in cui ero in un vagone cercavo sempre lo sterzo per le manovre d’emergenza: lo afferravo con forza e, come se fossi un nocchiero al timone della propria barca, giocavo a fare il macchinista sotto lo sguardo divertito di mamma e papà. Con il trascorrere degli anni la passione di viaggiare in treno non mi ha mai abbondonato e, quando posso, cerco sempre un valido pretesto per preferirlo all’auto.

Per quanto concerne le stazioni, da bambino mi piaceva molto visitarle mentre eravamo in attesa del nostro convoglio. Spesso i miei mi sgridavano perché, quatto quatto, mi infilavo negli uffici dei ferrovieri, anche laddove era interdetto l’accesso agli estranei per motivi di sicurezza. Ad attrarmi era soprattutto la sala comandi munita di un enorme pannello a muro su cui brillavano tante piccole luci e un lungo banco con svariate manopole e pulsanti per avviare gli scambi e regolamentare il traffico ferroviario sulla tratta.

A Napoli mi affascinavano particolarmente le stazioni di Campi Flegrei, Mergellina e Pozzuoli. Tutte avevano sale adibite a usi diversi ed erano popolate da un’umanità variegata, caratterizzata non solo da ferrovieri, inservienti, personale della POLFER e, ovviamente, viaggiatori, ma anche da balordi, senza tetto, strafatti e prostitute, rivelandosi delle città in miniatura con la propria diversificata fauna umana.

 Se la presenza di un’umanità corrotta e degradata, cui si aggiunge un crescente numero di extracomunitari alla ventura, le anima tuttora da mane a sera, altrettanto non si può dire del personale ferroviario la cui presenza è resa sempre più evanescente a causa della tecnologia digitale che ha reso possibile il trasferimento nella sala comandi di Napoli Centrale di tutte le funzioni di smistamento e di controllo dei treni svolte in passato da ogni singola stazione. Altrettanto l’avvento dei distributori automatici di biglietti ha fatto sì che le biglietterie lentamente sparissero, rendendo un inferno la vita di quanti, costretti a spostarsi nei giorni di festa, trovando chiusi i bar, le tabaccherie e le edicole abilitate alla vendita dei biglietti, devono servirsi delle macchinette spesso fuori servizio o funzionanti solo con carta; costringendo i viaggiatori a mortificanti faccia a faccia con il personale viaggiante, seppure fossero loro stessi a cercarlo per avvertirlo di non essere muniti di biglietto non per il gusto di viaggiare a scrocco delle Ferrovie, ma perché non hanno avuto la possibilità di farlo pur avendone le intenzioni.

La cosa più avvilente di queste stazioni sono le porte degli uffici che affacciavano sui binari, un tempo sfolgoranti di luci e riecheggianti di voci, oggi bui e silenziosi come un paesaggio lunare. Laddove vi erano i vetri, probabilmente per una forma di sicurezza, si è pensato bene di proteggerli o addirittura di sostituirli con cartoni e stralci di cartelloni pubblicitari perché ormai più nessuno li anima. Una morte nella morte!

Una tristezza che mai avremmo immaginato quando, da ragazzi, andavamo a piedi camminando sui binari da Cavalleggeri a Campi Flegrei per comprare nel bar del dopolavoro ferroviario patatine, taralli, birre e poi ci sedevamo su una delle panchine dei marciapiedi a ridosso dei binari e trascorrevamo lì la serata parlando del più e del meno; raccontandoci i nostri sogni e speranza. Spesso quando arrivava un intercity, osservando i passeggeri seduti negli scompartimenti o affacciati ai finestrini, fantasticavamo su dove ci sarebbe piaciuto andare se anche noi avessimo avuto l’opportunità di viaggiare in treno.

 Malgrado il transito di treni e di viaggiatori continui a ravvivarne i marciapiedi dalle cinque del mattino alle undici di sera, vedere queste stazioni ridotte a uno smorto ammasso di cemento, ferro, degrado umano e desolazione, fa male al cuore.

È vero, i tempi cambiano e lo sviluppo tecnologico si impone fregandosene dei sentimentalismi. Eppure quelle tre stazioni, così come sicuramente tante altre sparse in tutta Italia, sono, secondo me, una delle testimonianze più palesi del lento ma inesorabile degrado interiore verso cui l’umanità sta tendendo.

Chissà che a salvarci non possano essere i treni a vapore…

About Post Author

vincenzo giarritiello

Nato a Napoli nel 1964, Vincenzo Giarritiello fin da ragazzo coltiva la passione per la scrittura. Nel 1997 pubblica L’ULTIMA NOTTE E ALTRI RACCONTI con Tommaso Marotta Editore; nel 2000 LA SCELTA con le Edizioni Tracce di Pescara. Nel 1999 la rivista letteraria L’IMMAGINAZIONE pubblica il suo racconto BARTLEBY LO SCRIVANO… EPILOGO, rivisitazione del famoso racconto di H. Melville. Dal 2002 al 2009 ha coordinato laboratori di scrittura creativa per ragazzi tra cui uno presso la sezione femminile dell’IPM di Nisida, esperienza che racconta nel libro LE MIE RAGAZZE – RAGAZZE ROM SCRIVONO edito nel 2019. Tra il 2017 e il 2020 ha ristampato L’ULTIMA NOTTE e pubblicato SIGNATURE RERUM (il sussurro della sibilla), RAGGIOLO, UNO SCORCIO DI PRADISO IN TERRA e la raccolta di racconto L’UOMO CHE REALIZZAVA I SOGNI. Nel 2020 ha pubblicato con le edizioni Helicon il romanzo IL RAGAZZO CHE DANZÒCON IL MARE. Nel 2021, sempre con le Edizioni Helicon, ha pubblicato il romanzo UN UOMO BUONO (mio padre malato di Alzheimer). Ha collaborato e collabora con diverse associazioni culturali (Magaris; Lux in fabula), con riviste cartacee e digitali tra cui IL BOLLETTINO FLEGREO, NAPOLI PIÙ, MEMO, GIORNALE WOLF, COMUNICARE SENZA FRONTIERE, QUICAMPIFLEGREI.IT. Nel 2005 ha aperto il blog LA VOCE DI KAYFA e nel 2017 LA VOCE DI KAYFA 2.0. Dal 2019 ha attivato il sito www.vincenzogiarritiello.it. Per la sua attività di scrittore e poeta in vernacolo ha ricevuto riconoscimenti letterari.
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